The Planet Remade

Nell’immane tentativo storico di fare ordine, la tecnoscienza ha prodotto un’interminabile scia di disordine, che ora possiamo rimediare soltanto con ulteriore ricorso tecnico.

Oliver Morton, Il pianeta nuovo. Come la tecnologia cambierà il mondo.

Di geoingegneria si comincia a parlare in termini non più fantascientifici solo nel 2011, dopo la COP17 sul clima che si tenne a Durban, in Sudafrica. Da allora il termine designa la scienza applicata che ingloba tutte le tecniche di manipolazione antropica e consapevole degli equilibri climatici e ambientali. Il libro-guida per gli appassionati avidi di approfondire la dottrina arriva nel 2017: Il pianeta nuovo. Come la tecnologia cambierà il mondo di Oliver Morton (il Saggiatore), filosofo della scienza e caporedattore dell’Economist.

Sguinzagliata la creatività immaginifica degli scienziati, sono moltissime le ipotesi geoignegneristiche circolate negli ultimi anni. Alcune rimangono fedeli all’idea di schermare le radiazioni solari, magari con enormi parasoli posizionati sulla superficie terrestre o direttamente lanciati in orbita. Altre guardano invece agli oceani, come la costruzione di metropoli galleggianti o l’introduzione di microrobot natanti che ripuliscano l’acqua da batteri o da altre sostanze inquinanti, già allo studio di un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Intelligent Systems. Nel 2013, l’oggi venticinquenne Boyan Slat ha invece messo a punto The Ocean Cleanup, un sistema galleggiante per la rimozione passiva e su vasta scala dei frammenti di plastica in sospensione negli oceani.

Tra le possibili applicazioni della geoingegneria rientrano anche tutte le misure tecnoscientifiche per fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Nel settembre del 2018, un gruppo di ricercatori coordinati da Michael Wolovick del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory dell’Università di Princeton, ha progettato due diversi piani ingegneristici per frenare l’ice shelf del ghiacciaio di Thwaites, in Antartide, che con una velocità di due chilometri all’anno sta scivolando sul mare di Amundsen. Il primo piano di Wolovick e colleghi prevede di puntellare quasi 120.000 chilometri quadrati del Thwaites con degli enormi pilastri sottomarini, così da sostenere lo scivolamento del ghiacciaio senza però proteggerlo dalle correnti calde sottostanti. La seconda proposta, invece, suggerisce l’impiego di una barriera isolante che scorra sotto la piattaforma di ghiaccio in modo da impedire all’acqua oceanica più calda di eroderla dal fondo.

Secondo Morton, il presupposto teorico su cui si fonda l’intera disciplina è che un taglio alle emissioni di CO₂, benché necessario e inevitabile, non darà effetti abbastanza immediati e dirimenti da mantenere il riscaldamento globale al di sotto del limite soglia di due gradi entro la fine del secolo, come stabilito dagli accordi di Parigi del 2015. Non c’è abbastanza tempo, in sostanza, per una conversione ambientale “dolce”, per organizzarci collettivamente e abbandonare in blocco l’energia fossile. Servono misure più radicali, proprie di una “scienza prometeica” che sfidi gli dèi della natura e rimetta in asse il piano inclinato della storia lungo cui sta scivolando l’umanità. In fondo, spiega Morton, “è da secoli che gli esseri umani interferiscono più o meno involontariamente con gli equilibri del pianeta che li ospita: le trasformazioni subite dai mari, dai venti, dai suoli, dai grandi cicli dell’azoto e del carbonio sono molto maggiori di quanto si pensi”. La geoingegneria è solo lo sviluppo prossimo e necessario di un processo che affonda nella storia radici antiche.

Il libro di Morton si configura dunque come un breviario al tempo stesso eccitante e spaventevole di molte delle possibili soluzioni alla crisi ambientale che la geoingegneria ha proposto negli ultimi anni.

Torna alla mente Teodora, la città invisibile di Italo Calvino, “cimitero del regno animale in cui l’uomo [avrà] finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto“.

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