Chi fermerà l’overpacking?

Osservando un cassonetto della spazzatura si capiscono molte cose sul nostro modo di vivere. Gli scatoloni che di solito compaiono in cima alla montagna ci ricordano che più della metà dei rifiuti è costituita da imballaggi. Innanzitutto carta, cartone e plastica.

Se sommiamo a questo dato la quantità annua di spazzatura prodotta in media a persona, 500 chilogrammi (con punte fino a 587 chili, come nel caso di Roma) e la previsione di un aumento di circa il 60% dei rifiuti entro il 2050, è chiaro che l’overpacking, l’eccesso di impacchettamento, sia un problema molto serio per la nostra qualità della vita e per la sostenibilità.

L’imballaggio è diventato un simbolo dello spreco. Ovunque. Dal salumiere che stende qualche fettina di prosciutto in diversi strati di carta e stagnola e poi piazza tutto, gran finale, in una busta di plastica. Al negozio dove abbiamo avuto la sciagurata idea di chiedere una confezione regalo, senza immaginare che il piccolo dono potesse restare sommerso all’interno di una grande scatola. Fino al supermercato dove tutto è imballato, anche per rispettare una valanga di leggi e norme che riguardano la grande distribuzione.

Nel Natale del 2020, annus horribilis, secondo una ricerca dell’Ipsos gli italiani avranno acquistato online 51,3 milioni di regali in più rispetto all’anno precedente. Quasi uno a testa. E a ogni regalo selezionato via Internet corrisponde un pacco, un imballaggio, quello che poi vediamo spuntare nel cassonetto. Un altro elemento di sconforto è che la paura del contagio ha riportato agli imballaggi più del 40% dei consumatori ormai abituati, prima della pandemia, ad acquistare prodotti sfusi. A partire da detersivi e detergenti. L’imballaggio si è così trasformato da involucro ingombrante a strumento di protezione sanitaria.

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