Il diritto alla disconessione

Nonostante i termini siano spesso usati come sinonimi, c’è una grossa differenza tra “telelavoro” e “smart working”. Il primo riproduce le modalità del lavoro d’ufficio (a partire dagli orari), il secondo è invece un lavoro per obiettivi, in cui a nessuno interessa quando e quanto tu stia lavorando, ma solamente gli obiettivi portati a termine.

Nella modalità smartworking, si rischia il fenomeno del always on. Quasi nessuno lavora in completa solitudine e spesso c’è bisogno di organizzare riunioni, mandare mail e fare qualche telefonata. Ma se ciascuno di noi è libero di lavorare quando gli pare, come si può impedire che si venga continuamente inseguiti da comunicazioni di lavoro, anche quando si è deciso di staccare e perfino negli orari più improbabili?

La comunicazione asincrona garantita dalle email avrebbe teoricamente dovuto risolvere il problema. Ma le cose non sono andate così: complice anche l’effetto psicologico che le notifiche hanno su di noi, ci siamo ritrovati a ricevere mail e comunicazioni di lavoro a qualunque ora del giorno e della notte (e anche durante i weekend) e a sentirci obbligati a rispondere immediatamente.

Questo mescolamento tra vita professionale e vita privata rischia di pervadere una gran parte della società, se davvero una percentuale sempre più alta di lavoratori inizierà a svolgere la propria professione in remoto. E lo sarà ancora di più se si adotterà la (teoricamente migliore) modalità dello smart working rispetto al telelavoro. Proprio per questa ragione, alcune aziende (come Volkswagen o BMW) e alcune nazioni stanno introducendo il “diritto alla disconnessione”.

La legge italiana sulla materia è ancora molto vaga, ma nel complesso si capisce anche solo intuitivamente quale sia il caposaldo delle norme che stanno iniziando a diffondersi in Europa.

Tuttavia, aldilà delle normative, è chiaro che con una buona dose di buonsenso da parte di tutti (azienda e dipendenti), sia possibile garantire il diritto alla disconessione.

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