La crisi delle identità

Ci troviamo stretti tra due fuochi. Da un lato, subiamo la pressione esercitata dal bisogno di affermare un’identità personale forte, performativa, degna di ammirazione: siamo sudditi di una tirannia esercitata da quel ritratto dell’Io che ritocchiamo e modelliamo ogni giorno, sul web e nella vita reale, cercando di filtrarlo, ripulirlo, correggerlo con cura come se dal suo successo (ma in quale competizione?) dipendesse per intero la nostra felicità. Dall’altro lato c’è l’identità collettiva, sociale, quel Noi che assume spesso i caratteri della nazione, la cui sovranità è minacciata da nuovi poteri forti, l’establishment, o dai flussi migratori in arrivo dal Sud del mondo.

Pietro Del Soldà, docente di Ricerca in Filosofia – Università Ca’ Foscari di Venezia

Liside. In questo dialogo, come in tutti gli altri testi di Platone che vedono Socrate protagonista, nessuno dei presenti ha ben chiaro l’oggetto della discussione, ossia, in questo caso, chi è l’amico. Tra le pieghe di questa vertiginosa ricerca intorno all’amicizia, noi lettori di Platone possiamo trovare oggi spunti preziosi in grado di gettare luce anche sulla vera ossessione del nostro tempol’identità.

Sul piano individuale ciascuno di noi, chi più chi meno, tende a inseguire e a investire sull’identità personale in chiave narcisistica e a dipendere con ansia dal riconoscimento e dal giudizio altrui. Nel lavoro, nello studio, nella vita sentimentale, nei rapporti familiari, ovunque aspiriamo a ottenere dagli altri la conferma della nostra versione “al meglio”.

Vogliamo immedesimarci in questa sorta di “ritratto dell’Io” da esporre, mettendolo davanti al nostro volto, eliminando o riducendo al minimo i dettagli che stonano. È un obiettivo che non abbandoniamo quasi mai, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Quando viviamo un’esperienza, bella o brutta che sia, un nuovo incontro, un episodio banale, subito lo riconduciamo al faticoso lavoro di costruzione dell’identità personale che è un cantiere sempre aperto, con il rischio concreto di subordinarvi tutto quello che facciamo, fino al punto di perderci il piacere che potremmo invece ricavare dalle cose della vita per quel che sono, a prescindere dal loro tornaconto narcisistico.

Spostandoci sul piano collettivo, non si notano poi molte differenze. La stessa ansia, la stessa tensione al riconoscimento, al giudizio e all’affermazione di sé si estende oltre i confini del singolo, coinvolgendo per intero le società trasformate dalla globalizzazione: il confronto con stili di vita e modi di pensare diversi dai nostri, aumentato a dismisura nei primi anni di questo secolo grazie alla rivoluzione digitale e ai flussi migratori, ha avuto l’effetto di rafforzare in molti di noi l’attaccamento alle parole, ai riti e ai costumi della terra in cui siamo nati o ad altri simboli collettivi di appartenenza.

I movimenti identitari, ormai protagonisti indiscussi della politica contemporanea, devono il proprio successo al fatto che intercettano quell’ansia e riescono a sedarla – o, meglio, promettono di farlo – con parole d’ordine di grande efficacia. Adattandosi ai diversi contesti grazie a strategie di comunicazione mirate, la propaganda identitaria in Europa, negli Usa, in India, in Brasile, in Russia, nelle Filippine e in altre zone del pianeta, all’insegna dell’America first!British first!Prima gli italiani! e così via, aumenta lo smarrimento e poi offre riparo, enfatizza la malattia e propone la terapia, alimenta la rabbia e la frustrazione e costruisce il capro espiatorio perfetto su cui sfogarle.

I leader sovranisti che fioriscono nelle varie zone del mondo dicono cose diverse, plasmandole in base alla situazione economica, sociale e culturale del paese in cui si trovano. Ma come fossero un sol uomo, gridano all’invasione degli stranieri e al pericolo della sostituzione etnica, e spacciano per soluzione i muri da tirare su e le frontiere da sigillare (esempio lampante di questa strategia, in Italia, è l’abrogazione della protezione umanitaria prevista nel 2018 dal “decreto Salvini” che, in nome di una maggiore sicurezza, ha sottratto al processo d’integrazione migliaia di immigrati, alimentando così quel senso d’insicurezza che dichiarava di voler combattere, la paura dello straniero “per strada” e il conseguente desiderio di una risposta ancora più dura).

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