La donna che parlava ai calcolatori

Nel 1944 Grace Hopper venne assegnata, con il grado di tenente di vascello, a un gruppo di lavoro coordinato da Howard Aiken con sede a Harvard. E fu lì che incontrò la “gigantesca macchina misteriosa”, Il Mark I era un enorme strumento di calcolo automatico di 4 tonnellate e mezzo di peso, che si sviluppava per 16 m di lunghezza e 2,4 m di altezza.

Nata nel 1906 con il nome di Grace Brewster Murray, figlia di una famiglia della buona borghesia di Manhattan, si era laureata in matematica e fisica al Vassar College, per poi conseguire un dottorato a Yale. Di lì a poco divenne insegnante nel College in cui aveva studiato e sposò Vincent Foster Hopper, professore di Letteratura, di cui prese il cognome.

Grace nutriva una passione per la correttezza linguistica: aveva più volte lei stessa raccontato che negli anni dell’insegnamento era stata solita valutare i compiti degli studenti sulla base della chiarezza espositiva, tanto che sostenevano che il suo fosse un corso di matematica, non di lingua. Allora rispondeva che era inutile imparare la matematica se non si era in grado di comunicarla. Grece Hopper era sicuramente la persona giusta per elaborare la documentazione tecnica del “mostro”.

Era l’epoca in cui il debugging dei computer si faceva ancora pinzette alla mano. Non riprogrammandoli, bensì cercando di scovare gli insetti, i bug appunto, intrufolatisi in quelle enormi bestie meccaniche. Nel ‘47, mentre venivano eseguiti i test sul nuovo Mark II a cui il gruppo di Aiken stava lavorando, lo staff fu ospitato in un edificio rimasto inutilizzato dai tempi della Prima guerra mondiale. Il caldo era insopportabile in quelle lunghissime notti d’estate trascorse a seguire le operazioni che il metallico gigante imparava a macinare. E il Mark II, d’un tratto, s’arrestò. Una falena, entrata dalle finestre aperte, si era andata a spiaccicare in uno dei relè.

Avevamo un paio di pinzette”, avrebbe ricordato Grace. “Trovammo una falena di circa quattro pollici di apertura alare e, con molta attenzione, la tirammo fuori e la mettemmo nel nostro ‘registro di bordo’, bloccandola con dello scotch” un po’ come avrebbero fatto dei fanciulli desiderosi di ravvivare lo scrapbook delle loro vacanze estive.

Il termine bug, è vero, era stato impiegato sin dai tempi di Thomas Edison per indicare problemi e malfunzionamenti meccanici, ma con questo episodio esso veniva finalmente introdotto nel linguaggio della nascente informatica, tanto che, avrebbe continuato Grace, “da quel momento in poi, quando qualcosa non andava, dicevamo che c’erano dei bug e che stavamo facendo il debugging”.

In effetti, anche grazie alle prese di posizione di Grace Hopper, lo sviluppo dei principali linguaggi, tra cui il FORTRAN, subì una netta accelerazione. La filosofia universalista che ispirava questa azione era semplicissima: invece di implementare differenti dialetti, da usare su hardware diversi, i linguaggi dovevano essere via via adattati e uniformati per “girare” su qualsiasi computer. Hopper, assunta per domare e insegnare a parlare a un solo spaventoso mostro, lavorò fino alla fine per trovare un linguaggio condiviso da tutta la progenie delle macchine.


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