Economia della privacy

I dati personali (e non) che diamo ai servizi online che usiamo tutti i giorni ci appartengono? O quando diamo il consenso ne cediamo la proprietà alle aziende? È giusto parlare di proprietà del dato?

Big data (Getty Images)

Abbracciare l’idea di “proprietà del dato” porta direttamente all’idea di monetizzazione . Se l’utente possiede il dato allora è libero di sfruttarlo economicamente. Il problema è che anche con la miglior legge sulla protezione dei dati, un soggetto non può davvero dire di avere un controllo sui “suoi” dati. E se anche fosse, si potrebbe davvero dire che il consenso al trattamento dei dati sia davvero libero, così come richiesto dal Gdpr? Una persona povera che vede nella cessione dei suoi dati l’unica fonte di sostentamento è davvero libera quando dà il consenso ai dati sensibili sulla sua salute o le sue scelte politiche?

Valentina Pavel, di Privacy International, organizzazione inglese che si occupa di tutelare la privacy dei cittadini si è immaginata quattro futuri possibili, ambientati nel 2030, con sfumature diverse a seconda delle scelte prese sulla gestione dei dati. Si tratta di scenari alla Black Mirror, dove all’inizio sembra tutto “auspicabile”, salvo scoprire che sotto la superficie le cose non sono così idilliache come sembrano.

  • Scenario 1: ognuno è padrone dei suoi dati
  • Scenario 2: generare dati è un lavoro
  • Scenario 3: fondi pubblici di dati
  • Scenario 4: dati di diritto
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Nel primo scenario, la società ha optato per il riconoscimento di diritti di proprietà sui dati. Gli utenti possono cedere i propri dati in cambio di denaro in due modi: all’asta al miglior offerente oppure con un abbonamento. Benché possa sembrare un modo facile per guadagnare dall’uso di servizi che comunque useremmo, le conseguenze potrebbero essere quelle di abbassare la guardia sulla necessità di protezione dei nostri dati personali.

Se, per esempio, non si ha disponibilità economica, si tenderà a cedere molti più dati del normale. Questi dati potrebbero essere la geolocalizzazione in tempo reale o il monitoraggio costante dei nostri parametri corporei. Ciò porterebbe a svendere un diritto tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Mentre la proprietà è alienabile, i diritti umani come quello alla privacy non lo sono.

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Nel secondo scenario, fornire e generare dati diventa un lavoro. La vita del protagonista passa tutto da un’unica piattaforma che registra ogni interazione, ogni like, ogni acquisto (WeChat vi dice nulla?). L’utente dunque diventa anche un lavoratore della piattaforma favorendo il divario tra ricchi e poveri, perché solo i primi potranno rifiutarsi di cedere grandi quantità di dati. I secondi, a differenza di quanto accade oggi, hanno piena consapevolezza del valore dei propri dati ma, non avendo scelta, sono costretti a cederne la maggior quantità possibile.

Blockchain (Getty Images)

Nel terzo scenario i dati sono organizzati e gestiti da fondi pubblici. Tutto quello che le persone fanno viene analizzato e alimenta una grande intelligenza artificiale, che lavora per il benessere pubblico. Le società possono accedere ai dati pagandoli all’amministrazione pubblica che gestisce il fondo. Il prezzo dipende dall’importanza dei dati che però sono anonimizzati.

Nel quarto e ultimo scenario si descrive un modello fondato suldiritto dei dati. Qui l’utente ha a sua disposizione un’applicazione che gli permette facilmente di gestire il consenso al trattamento dei suoi dati, sapere dove e come vengono utilizzati. L’incentivo per le aziende a questa maggior trasparenza è il fatto che l’app è direttamente collegata con il garante della privacy per fare una segnalazione in caso di abuso.

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