Le diseguaglianze dell’Economia della Conoscenza

Si chiama “economia della conoscenza” e, secondo un numero crescente di studi, è uno dei fenomeni alla base della iniqua distribuzione di ricchezza, ma anche di possibilità, nella nostra società: dalla disparità nei salari alla differente offerta di servizi, in termini numerici e qualitativi, che si sviluppano sui territori interessati.

Si cresce in un posto piccolo, ci si fa in quattro per riuscire a frequentare una buona università in una città più grande, e al termine degli studi sovente si resta lì per cercare lavoro, contribuendo a concentrare cervelli e competenze in un numero ristretto di aree geografiche. Che diventano anche le più ricche, e quelle più capaci di attrarre persone.

Asili nido, sanità, biblioteche, scuole sono insomma di più e migliori dove ci sono i soldi, con l’effetto di alimentare il circolo vizioso delle disparità. I percorsi di crescita dei settori “a consumo intensivo di conoscenze”, d’altronde, non possono che acuire le differenze: se serve un esempio, basti pensare alla Silicon Valley, dove da decenni le aziende tecnologiche attraggono i migliori talenti e risorse, creano un tessuto sociale fatto di persone iperqualificate capaci di generare le innovazioni che determinano cambiamenti epocali nelle vite di tutti, alzando costantemente l’asticella delle competenze necessarie a essere parte della rivoluzione. 

Gli economisti Joan R. Rośes e Nikolaus Wolf, nel volume The economic development of Europe’s regions. A quantitative history since 1900, hanno fotografato la crescita delle disuguaglianze in Europa dal 1900 a oggi, spostando l’accento dalle economie nazionali alle specifiche regioni, e verificando il legame – via via più stretto con l’affermarsi dell’economia della conoscenza a discapito della produzione agricola e dell’industria di massa – tra agglomerati urbani e differenze di ricchezza.

Non fa piacere constatare che tra le dieci aree più povere d’Europa ci sono sei regioni italiane: Sardegna, Basilicata, Puglia, Sicilia, Campania, Calabria. Aree marginali, spesso a carattere rurale o di scarsa industrializzazione, che pagano la loro lontananza, e a volte anche i difficili collegamenti, con i centri maggiori e le competenze.

In questo quadro sconfortante, una possibile leva per riequilibrare le storture però esiste. E, secondo il Centro di ricerca sull’innovazione e l’impatto sociale Tiresia della School of Management del Politecnico di Milano, guidato da Mario Calderini, arriva dalle imprese sociali.

In Italia le start-up innovative a vocazione sociale, le cosiddette Siav, e le società benefit fanno un uso maggiore delle nuove tecnologie rispetto al resto d’Europa: circa due quinti delle Siav intervistate e quasi un terzo delle benefit rientrano infatti nelle organizzazioni a intensità tecnologica alta o media.

La disponibilità di capitali per lo sviluppo di imprese a impatto sociale è in costante aumento: pronti a essere investiti oltre 210 milioni di euro, ma se si guarda a tutti i finanziamenti riconducibili in qualche modo a un modello di finanza sostenibile raggiungiamo i 6,5 miliardi.

Ed è proprio da questi capitali che si può partire per combattere le disuguaglianze: in modo distribuito, e partendo da quei servizi che rispondono alle esigenze del territorio e delle famiglie.

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