1993, Populismo Anno Zero

Nel suo libro “Chiudete Internet“, Christian Rocca spiega l’urgenza e la necessità di cambiare il modello di business della Rete al fine di salvaguardare la società aperta. Questa tesi arriva dopo diverse analisi su dove ci troviamo e come ci siamo arrivati, come nel capitolo sul “Populismo del ’93”.

Il neopopulismo digitale ha solide radici offline che non vanno trascurate, anzi sono da studiare per approntare un rimedio alle insidie attuali. Un tempo c’era Aldo Biscardi. Il bar dello sport televisivo era un ritrovo sublime e necessario, dove era consentito urlare liberamente contro l’arbitro cornuto. Poi, una volta usciti dal bar, più o meno si tornava alla vita normale. Quel confine è saltato negli anni della cosiddetta «Calciopoli», della rivoluzione francese del grillismo, ed è stato sostituito da una Schengen del rutto libero che ha permesso alle polemiche sul calcio di rigore di entrare nei telegiornali e al raffinato pensiero del piove-governo-ladro di prendere il posto delle grandi ideologie del Novecento.

Da allora i talk show politici italiani si sono chiamati PiazzapulitaLa gabbiaL’aria che tiraAnnozeroBersaglio mobileVirusBallaròL’A­renaAgoràQuarto grado. Basta metterli in fila uno dietro l’altro e non serve nemmeno sintonizzarsi per individuare le origini del populismo giustizialista e della gigantesca truffa della democrazia diretta e anche di quella eterodiretta dall’algoritmo della Casaleggio Associati. Abbiamo adottato la gogna dopo Il processo del lunedì, il dibattito con proteste da cartellino rosso, la tabula rasa dopo l’invasione di campo.

I media tradizionali, poi, interpretano lo spirito del tempo abdicando al ruolo di ingrediente necessario per la formazione di un’opinione pubblica adulta e costruiscono campagne populiste contro la casta, fino a delocalizzare la confezione del prodotto editoriale nelle stanze delle procure della Repubblica. Una volta raggiunto il potere, le creature politiche di questa resa incondizionata pretendono l’asservimento e il mondo dell’informazione un po’ glielo concede, porgendo microfoni e taccuini alla bisogna, un po’ si indigna del trattamento subito da parte di chi, come ha scritto Francesco Cundari, non conosce i principi elementari della gratitudine. E così siamo arrivati a Marcello Foa presidente della Rai, al signoraggio in prima serata, alle animazioni antifrancesi e antitedesche nei talk show, alla propaganda di Putin postprandiale, a canali pubblici e privati popolati da personaggi da Hellzapoppin’, a nuove trasmissioni che si chiamano Povera PatriaPopolo Sovrano, eccetera.

Chi ha vinto la lotteria sono stati i leader capaci di intercettare sia la paranoia antistatalista dei primi sia il veteroanticapitalismo dei secondi, grazie all’abilità nell’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, alle qualità artistiche da intrattenitori provetti e alla completa disabilitazione nel dibattito pubblico di ogni forma di attinenza ai fatti. Beppe Grillo e Donald Trump, insomma. I due showmen sono analogici, hanno creato consenso online, ma non sono la causa né tantomeno la terapia della malattia populista. Sono il sintomo.

C’è chi fa risalire l’origine del populismo contemporaneo italiano alle campagne contro la casta iniziate nel 2006 sulle pagine dei grandi giornali e sulla televisione e culminate nella pubblicazione di numerosi saggi che hanno dato vita negli anni a seguire a un nuovo genere letterario di gran successo. Ma in realtà anche quella campagna editoriale contro gli sprechi della politica non è l’origine, semmai lo sfogo finale di un indottrinamento generazionale cominciato invece nel 1993L’anno del Terrore di Mani pulite, come recita il sottotitolo di Novantatré di Mattia Feltri.

Sempre nel 1993 Samuel P. Huntington, ha scritto il saggio “Lo scontro delle civiltà. Dopo l’11 settembre 2001, è diventato uno dei libri più citati, spesso a sproposito. Huntington non era favorevole allo scontro di civiltà, né aveva posto le basi per l’interventismo di George W. Bush (semmai era contrario), piuttosto metteva in guardia la società spensierata del 1993 dai pericoli di cotanto ottimismo e prevedeva che lo scontro tra le civiltà sarebbe stato inevitabile.

Era questo il dibattito occidentale, mentre si ponevano le basi della rivoluzione digitale. In Italia, invece, nel 1993 c’è stato uno scontro di inciviltà: da una parte la corruzione politica e dall’altra la via giudiziaria al potere, tutto il resto è stato schiacciato. Il 1993 è stato l’anno delle tangenti, dei suicidi, della carcerazione usata come strumento di confessione, dei partiti diventati bande da sgominare, dei processi sommari in piazza e sui giornali anziché nelle aule dei tribunali. E mentre il mondo progettava le autostrade dell’informatica, l’Italia dibatteva di frequenze televisive e si divideva sugli spot televisivi che interrompevano l’emozione di un film.

Il 1993 è soprattutto l’anno in cui si impone l’archetipo dell’«uno vale uno», il primo richiamo, ancora semianalogico, alla democrazia diretta, il modello originale della disintermediazione politica creata dai social che va di moda adesso. È l’anno in cui i partiti politici, le televisioni generaliste e i grandi giornali iniziano a invocare il fantomatico «popolo dei fax» che protesta via facsimile contro la classe politica, contro l’establishment e contro l’élite del paese. Il «popolo dei fax» era il commentatore rancoroso di allora, l’antecedente della diretta indignata su Facebook, era qualcosa di simile al primo gruppo parlamentare grillino. Bastava mandare direttamente un fax, per poter dire la propria, per cantarla giusta al potere.

L’imprenditore fattosi politico Silvio Berlusconi, campione populista ma tutto sommato liberale, ha prosperato intorno a questa retorica salvifica del popolo contro le élite, sollecitandola ma in fondo anche contenendola. Il merito di averla tenuta fuori dal governo è anche della travagliata lungimiranza dei leader della sinistra come Matteo Renzi, anche lui come Berlusconi impegnato a sfruttare elettoralmente il fuoco populista e allo stesso tempo a cercare di domarlo. Leggete gli articoli sul «popolo dei fax» negli archivi dei giornali e guardate su Rai Teche i talk show di quella stagione, da Funari a Santoro, oltre a Striscia la Notizia e alle Iene, e converrete che il populismo oggi al governo, il nostro populismo, è molto più radicato di quanto si creda. E questo è un guaio tutto italiano.

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