Bandersnatch, nostalgia e nuova narrativa tecnologica

“Un elemento chiave della nostalgia è che per fare il suo lavoro ideologico deve fare leva sulla fantasia di un tempo più semplice, meno ansiogeno”.

Francesco Guglieri, scrittore e saggista

Gli Ottanta erano anni in cui il videogioco era ancora una faccenda piuttosto piccola (la maggior parte dei titoli erano sviluppati in effetti da una sola persona, per cui lo spunto narrativo di “Bandersnatch” non è campato per aria: l’idea di “industria videoludica”, di un team di sviluppo o di campagne marketing stavano appena nascendo), ma soprattutto nazionale, nel senso che esistevano ancora degli stili nazionali, era possibile distinguere un gioco inglese (come quelli Psygnosis ad esempio, o quelli della Tuckersoft…) da uno francese, americano e, ovviamente, giapponese.

Oggi questa distinzione non c’è più (resta, sempre più labile anch’essa, solo quella che caratterizza la scuola nipponica), anche perché i team di sviluppo sono composti da centinaia, a volte migliaia di persone, magari sparse per il mondo e ogni titolo, essendo un investimento milionario, deve poter funzionare in ogni mercato in cui verrà venduto.

Bandersnatch” ci sta così dicendo che è una riflessione su:

  • il futuro della narrazione: sarà interattivo;
  • il futuro della narrazione: deve rimanere chiuso, lineare e autoriale;
  • la natura della realtà;
  • il libero arbitrio;
  • il libero arbitrio ai tempi della tecnologia di intrattenimento globale (Netflix);
  • il destino dell’artista intrappolato nelle logiche del linguaggio (del grande Altro direbbero Lacan e Žižek);
  • come la precedente ma le logiche sono quelle del capitalismo e/o dell’industria culturale;
  • Charlie Brooker costretto a fare certe baracconate per pagarsi il mutuo;
  • che, per quanto ci piaccia crederci liberi, siamo tutti come Stefan, intrappolati in realtà inumana e violenta, alienante e psicotica chiamata neoliberismo (questo è il finale che potremmo chiamare Realismo capitalista in onore, e in odore, di Mark Fisher);
  • tutte le precedenti ma sussunte a un livello superiore e, per così dire, previste e disinnescate dal testo stesso: adesso è come se “Bandersnatch” dicesse “lo so che farai tutte queste riflessioni, l’avevo già previsto nell’infinita ricombinazione delle trame. Possiamo solo darci di gomito a vicenda, io testo e tu fruitore, dirci quanto siamo intelligenti, sorridere e disperarci. Non c’è altro da fare”. Una strizzatina d’occhio disperata: in fondo è una buona sintesi del postmoderno.

Bandersnatch” è il prototipo di una tecnologia che dà a Netflix un enorme vantaggio competitivo sui concorrenti.

Francesco Guglieri, scrittore e saggista

Ogni volta che fruiamo Netflix o qualsiasi altro servizio erogato da una piattaforma online, stiamo nutrendo l’algoritmo della piattaforma stessa: in qualche modo lo educhiamo, gli parliamo di noi, lo aiutiamo a conoscerci meglio. Ogni nostra scelta influirà su quello che ci verrà proposto la prossima volta: buona parte del successo di Netflix, ad esempio, si basa sulla capacità del suo algoritmo di crearci delle proposte di film e serie da vedere personalizzate, tarate sui nostri gusti (le scelte precedenti).

Lo fanno a un grado di sofisticazione straordinario (grazie a enormi investimenti) perché è proprio da lì che le piattaforme estraggono valore. Amazon “vede” i brani più sottolineati dei libri e sa esattamente a che pagina i lettori hanno smesso di leggere un certo titolo: si potrebbe immaginare un editing post-pubblicazione con l’eliminazione o accorti tagli delle scene più noiose. Allo stesso modo Netflix sa quando smettete di guardare una serie o un film, sa esattamente quale scena vi fa desistere.

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